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16 aprile 2024

“Autismo e Psicoterapia in età adulta. Modelli e strategie di intervento...

“Autismo e Psicoterapia in età adulta. Modelli e strategie di intervento cooperativo e focalizzato sulla consapevolezza”, edizioni Franco Angeli   Autrice, Maria Marino Prefazione, Francesco Mancini   Un libro frutto del lavoro di anni e di diverse riflessioni sui cambiamenti nella concezione clinica dell’autismo, dei suoi sviluppi come costrutto sociale, del dialogo necessario tra aspetti clinici, socio-culturali ed esistenziali, e di come tutto questo riguardi la psicoterapia, e la necessità di strutturare modelli di intervento specificamente pensati e adattati alle caratteristiche neurodivergenti in termini di elaborazione e di integrazione delle informazioni. Il testo è un manuale teorico-pratico per il lavoro in psicoterapia cognitiva con persone adulte autistiche, maturato nel corso degli anni di lavoro come docente di psicoterapia e calibrato sulle esigente formative in relazione al lavoro psicoterapeutico in questo ambito. Il lavoro presenta una nuova prospettiva di intervento, adattata alle specifiche caratteristiche delle persone neurodivergenti, in relazione allo stile differente di elaborazione e integrazione delle informazioni. L’autismo è una condizione neurodivergente che si manifesta nel corso dell’infanzia, evolvendo in caratteristiche e processi che permangono per tutto l’arco di vita. Ancora oggi è poco consolidata la concezione di neurosviluppo come traiettoria, come un insieme di processi che restano influenti, andando a connotare in età adulta tanto l’espressività delle caratteristiche psicologiche quanto i quadri clinici, quando presenti. L’intento del presente lavoro è proprio quello di proporre un modello teorico-clinico che integri le caratteristiche neurodivergenti nella formulazione del caso, in una cornice cognitivista.   Il testo, aggiornato alle evidenze più recenti, è dedicato, in particolare, alla formulazione del caso per il lavoro in psicoterapia con persone nello spettro che, prima della revisione dei criteri categoriali e diagnostici avrebbero ricevuto una diagnosi di “sindrome di Asperger” (“Disturbo dello Spettro Autistico senza compromissione dell’intelligenza e del linguaggio associate”).   Pensato per gli psicoterapeuti, il testo presenta un nuovo modello integrato, basato su una concezione di neurodivergenza come insieme di differenze, più che di “deficit”, e adatto formulare un piano terapeutico fondato su questa concezione. Il libro si presta a un utilizzo guidato, e permette al terapeuta di costruire, insieme al paziente, un percorso di conoscenza e di gestione delle proprie caratteristiche neurodivergenti, per potersi orientare al meglio e nel rispetto di come si è fatti. Perché questo libro? L’autismo è un insieme di caratteristiche insite nell’individuo e che lo accompagna per tutta la vita. Uno psicoterapeuta che lavori con una persona neurodivergente deve essere in grado di formulare un intervento sartoriale, che si basi e si adatti alle caratteristiche espresse dalla neurodivergenza, che essa si accompagni, o meno, a comorbidità di rilievo clinico.

26 febbraio 2022

Sovrapposizione tra lo spettro autistico molto lieve, anoressia nervosa e...

Dott.ssa Maria Marino - Studio Napoletano Psicologia Cognitiva Call for paper!!! Guest Editors: Dott.ssa Maria Marino, Dott.ssa Maria Pia Riccio Submission deadline: Settembre 2022  Questo numero speciale di Children – MDPI, invita a proporre lavori sulle specifiche condizioni cliniche menzionate: Disturbo Ossessivo Compulsivo e Anoressia Nervosa, così come sulle loro relazioni, sul piano clinico e psicopatologico, ma anche in relazione alla condivisione di meccanismi neuopsicologici e di neurosviluppo.  Recenti ricerche nel campo del neurosviluppo hanno aumentato la nostra conoscenza dei fattori causali del Disturbo dello Spettro Autistico (ASD). Questo progressivo aumento della nostra conoscenza riguarda anche i processi neuropsicologici, le caratteristiche emotive e comportamentali dell'ASD. Questi avanzamenti hanno avuto un impatto fondamentale per la clinica e la terapia di disturbi autistici, forse in particolare per quanto riguarda le forme estremamente lievi di neurodivergenza. In queste condizioni, infatti, conoscenze sempre più raffinate ci permettono di apprezzare non solo caratteristiche specifiche, anche molto lievi, ma anche aspetti di comorbidità e di sovrapposizione di elementi metacognitivi, cognitivi ed emotivo-comportamentali tra differenti, tra diversi condizioni cliniche e psicopatologiche. La conoscenza di tali processi è ancor più importante se si considera il loro intrecciarsi con le caratteristiche sottostanti del neurosviluppo. Sappiamo che tratti di rigidità cognitiva e metacognitiva sono condivisi tra ASD, anoressia nervosa (AN) e Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC). Questo numero speciale di Children – MDPI, invita a proporre lavori sulle specifiche condizioni cliniche menzionate: Disturbo Ossessivo Compulsivo e Anoressia Nervosa, così come sulle loro relazioni, sul piano clinico e psicopatologico, ma anche in relazione alla condivisione di meccanismi neuopsicologici e di neurosviluppo.

03 ottobre 2021

“Sindrome di Asperger: la lunga e tortuosa strada verso il senso di sé”

Autori: Dott.ssa Maria Marino, Studio Napoletano di Psicologia Cognitiva SNPC. Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) di Napoli Dott.ssa Maria Pia Riccio, Dott.ssa Rosamaria Siracusano, Professoressa Carmela Bravaccio. Dipartimento Scienze Mediche Traslazionali, UOSD di NPI Infantile, AOU Federico II, Napoli. Nell’ultimo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5 - American Psychiatric Association – APA 2013), il termine "Spettro autistico" viene usato come continuum dimensionale, in cui le caratteristiche del disturbo sono linearmente distribuite. La sindrome di Asperger (AS) (DSM-IV-TR, APA 2000), alla luce di tale revisione, è stata eliminata come categoria diagnostica specifica. Così, oggi si preferisce parlare “solo” di “Disturbi dello Spettro Autistico” (ASD), identificando le forme lievi, piuttosto che come AS, attraverso l'utilizzo di specificatori: basso livello di gravità, presenza di dotazione intellettiva nella norma o superiore alla norma, e assenza di deficit di linguaggio. Di fatto, però, il termine “Asperger" viene tuttora utilizzato, tanto nella comunità scientifica e nella letteratura specialistica, che dalle stesse persone Asperger. Questo perché, certamente, si tratta di un termine molto radicato e noto, ma anche perché tale costrutto riesce indubbiamente a identificare una serie di caratteristiche psicologiche, identitarie e comunitarie, nonché a rappresentare una "cultura" di riferimento che, ad oggi, il termine "Spettro" non sembra essere in grado di esprimere e catturare. Nel lavoro di breve sintesi critica, si propone una riflessione sul valore del termine “Asperger” come costrutto in grado di rappresentare elementi psicologici e comportamentali complessi e riferibili a un assetto identitario; dunque anche una riflessione sulla potenziale “perdita” di potere nell’accuratezza e nella sensibilità delle attuali categorie diagnostiche di rispecchiare e individuare elementi caratteristici e pregnanti. Inoltre, spunti di riflessione vengono posti anche in relazione al potenziale impatto della mancanza di un termine che è tuttora rappresentativo di una particolare dimensione della neurodivergenza, nella quale si identificano e si sentono rispecchiate tantissime persone Asperger nel mondo e che assume quindi, anche una rilevanza culturale e in un certo qual modo “politica”.  Il lavoro è stato pubblicato sul numero di Luglio 2021 del Giornale di Neuropsichiatria dell’Età Evolutiva della SINPIA.

21 novembre 2020

SNPC suggerimenti di visione: “Atypical”, la storia di uno splendido...

Dott.ssa Maria Marino, Studio Napoletano di Psicologia Cognitiva Sam è un adolescente. E cresce, come tutti i ragazzi. E’ intelligente, carino, curioso, un po’ goffo. Ha forti passioni, diversi interessi nei quali si compenetra con una dedizione senza uguali, talvolta estraniandosi dal mondo, talvolta parlandone fino a stremare il proprio interlocutore. Può passare ore a raccontare tutto, ma proprio tutto, sui pinguini dell’Antartide e, quando è stressato, si calma e si rilassa ripetendo all’infinito le razze che popolano quel luogo freddo e lontano…”Ardelia, Antartico, Imperatore, Papua”, mentre cammina in cerchio nella sua stanza, perché è anche così che ha imparato a gestire lo stress della vita quotidiana, che per tutti noi è norma, ma per lui è rumore, luci abbaglianti, suoni sovrapposti, confusione, informazioni e voci che si mischiano in modo indecifrabile, sensi ed emozioni che si sovraccaricano. Sam ama disegnare, naturalmente pinguini e, a modo suo, comprendendo la gerarchia sociale dei pinguini e il modo in cui vivono e si amano, cerca di comprendere il mondo intorno a lui. Sam è molto intelligente, ama la sua famiglia e i pochi amici che ha, mentre non comprende la maggior parte delle interazioni fra i propri compagni di classe, che hanno gusti, passioni, modi di fare e di scherzare completamente diversi dai suoi. E’ ironico, ma è difficile che capisca le battute degli altri; è timido, e schivo, ama i forti abbracci, ma per il resto odia il contatto fisico; e le etichette dei vestiti, quanto gli danno fastidio!!! E, a proposito di vestiti, li preferisce tutti piuttosto simili, in fondo non c’è motivo di cambiare stile se sai cosa ti fa stare comodo. Ah,,,e naturalmente, Sam odia gli imprevisti e ama la logica, gli schemi , la routine…Sam  in effetti è molto sensibile a una serie di cose di cui forse noi neanche ci accorgiamo, e questo può farlo apparire strano, scattoso. Sam, come tutti, vuole capire il mondo, innamorarsi, diventare indipendente. Eppure Sam, che cresce come tutti i ragazzi, non è un ragazzo come tutti. La differenza è sottile, a volte invisibile; a volte invece diventa un abisso in cui si sprofonda, sentendosi solo e sperando in qualcuno che lo vada a cercare; altre volte, la differenza diventa un confine, che gli consente di ripararsi e rifugiarsi lontano da un mondo che non lo capisce – un suo personale Antartide, dove tutto è logico, comprensibile e chiaro, e non c’è confusione. Sam ha quasi 18 anni, ed ha la sindrome di Asperger. Atypical, dramedy Netflix, creata da Robia Rashid (“How I Met Your Mother”), è una serie che affronta il tema dell’autismo in modo delicato, brillante, ironico e al contempo attento. Aiuta a metterne a fuoco l’aspetto umano, riuscendo a farci identificare in Sam e nella sua famiglia, e nella lotta per la conquista della propria affermazione, superando le proprie difficoltà senza rinnegare le proprie differenze, anche di fronte a un mondo abituato a vederle e a percepirle solo come un “problema”. Il modo speciale di percepire il mondo di Sam, è, al contempo, una diversità ma anche una ricchezza, e la serie è una buona occasione per ridere, piangere, emozionarsi e fare il tifo per questo giovane eroe, così atipico, così fragile e a modo suo potente. Ma “Atypical” è anche una preziosa occasione per chi volesse  comprendere meglio l’autismo e come esso può manifestarsi nella vita quotidiana di un ragazzo, delineando quella differenza. quasi impalpabile ma significativa che, se ben gestita, potrà portarlo – lui come tutti i Sam dal mondo, verso la realizzazione. Insomma, dopo aver ripetuto come un mantra più e più volte, i nomi dei pinguini antartici, guardate questa serie! Intanto, qui sotto il link del trailer! Ah! Se siete interessati a sapere di più sul tema della neurodiversità, ogni tanto tornate sul sito, perché siamo un po’ in fissa sull’argomento!!!!

01 maggio 2020

La terapia on line ai tempi del Covid 19: riflessioni su un sorprendente...

In un momento storico come questo, completamente e rapidamente trasformato dalla pandemia in corso, la possibilità di utilizzare la tecnologia e i nuovi contesti e setting per la psicoterapia, si è trasformata in una necessità di adattamento ad una realtà nuova, e in continuo mutamento. La psicoterapia on line - modalità di lavoro oramai utilizzata e sulla quale cominciano ad accumularsi evidenze rispetto all’efficacia dell’intervento e alla qualità della relazione terapeutica – sarà una frontiera che dovremo deciderci ad attraversare, beneficiando anche dei molti vantaggi e delle risorse che offre, dato che potremmo trovarci a prolungare o a riproporre misure di distanziamento sociale volte a prevenire o contenere il rischio sanitario. Dunque, fare di necessità virtù, ma anche, allo stesso tempo, per gli scettici, l’opportunità di poter – o dover – vincere una resistenza per trovarsi nella possibilità di scoprire un’ottima risorsa, che, come ogni cambiamento di prospettiva voluto o necessario, offre nuove visioni e spunti di riflessione e comprensione.  La psicoterapia on line è una (relativamente) nuova risorsa per i pazienti, per i terapeuti e per la relazione terapeutica, che può trovarsi illuminata da una diversa prospettiva. Proponiamo alcuni spunti di riflessione generali, e altri tratti dall’intervista “LA TERAPIA ONLINE AI TEMPI DELLA QUARANTENA” fatta a Giancarlo Dimaggio, psichiatra e psicoterapeuta, recentemente pubblicata su “Psicologia Fenomenologica”.  Ci sembra importante proporre un momento di confronto e di riflessione sulla pratica della terapia on line, raccogliendo spunti significativi e argomentando anche qualche nostra riflessione personale, come terapeuti impegnati a fronteggiare questo delicato momento mantenendo impegno e passione nella pratica professionale sempre nel solco della buona prassi clinica e terapeutica. Nell’intervista, Giancarlo Dimaggio parla di come, nella videoterapia venga a mancare l’interregolazione corporea. La dimensione fisica del contesto e della relazione terapeutica sono infatti stravolti e filtrati dallo schermo, venendo a cambiare, o a mancare, numerose variabili: il corpo, l’ambiente sensoriale, la postura del terapeuta, l’abbigliamento, l’arredamento, la distanza, il modo in cui sono posizionate sedie o poltrone, il nostro modo di parlare e la mimica-gestuale, perfino gli odori che ci sono nello studio e i rumori dell’ambiente. Grazie ai diversi esperti che oramai da tempo lavorano come psicoterapeuti in setting on line, sono attualmente disponibili risorse e sta crescendo la letteratura sulle indicazioni e linee guida per la buona pratica terapeutica, anche in questa modalità. E’ importante capire che, così come avviene quando accogliamo una persona presso il nostro studio, anche preparare un setting on line richiede una riflessione. Non si può semplicemente “rispondere” a una videochiamata, bisogna preparare il contesto valutando bene, ancora con più cura, quale sia la migliore prospettiva, da offrire all’altro, per preservare quanto più possibile 2 elementi cardine della psicoterapia e della relazione: il senso di sicurezza e una buona relazione terapeutica. Nel corso dell’intervista, Giancarlo Dimaggio suggerisce di preservare, per quanto possibile, la dimensione interpersonale a favore della relazione terapeutica e di uno scambio comunicativo ottimale, posizionando il computer in modo tale da avere un’inquadratura più ampia per recuperare la dimensione corporea legata alla gestualità.   Naturalmente, questa possibilità va bilanciata con un’altra attenta valutazione: cosa far vedere, e intravedere, dell’ambiente in cui si svolge la videoterapia? La cura del paziente e della relazione sono sempre al primo posto, e questo impone di riflettere su ogni parametro che cada all’interno del setting terapeutico. Stimolare la vista del paziente con troppi dettagli del nostro ambiente potrebbe essere intrusivo, disturbante, così come inquietante potrebbe essere un contesto troppo asettico, che sembra voler negare ogni possibilità di accesso, in modo rigido ed eccessivo. D’altra parte, la videoterapia dallo studio del terapeuta potrebbe far emergere vissuti di esclusione e di tristezza da parte del paziente, momentaneamente impossibilitato a recarsi presso lo studio nel quale abitualmente si è recato, magari per molto tempo e del quale probabilmente sente la mancanza. Su tutto ciò bisogna riflettere e, per fortuna, il materiale non manca. Per chi fosse interessato, rimandiamo anche ai contributi della collega psicoterapeuta Ada Moscarella che da tempo lavora con la psicoterapia on line, pioniera e fonte di preziose indicazioni, per pazienti e colleghi. E’ fondamentale, quindi, riflettere su quale spazio, domestico o meno, si mostri al paziente. Nell’intervista, Dimaggio riflette su questa self-disclosure, sottolineando come sia fondamentale essere consapevoli di quale spazio mostreremo al paziente, dato che questo stesso spazio potrà diventare oggetto di riflessione, entrando a pieno titolo nella relazione terapeutica come importante elemento di metacomunicazione.  Lo studio dello psicoterapeuta è, in genere, un elemento sempre curato e ponderato. La stanza, essendo uno spazio fisico, solido, arredato e delimitato, insomma materiale, si impone facilmente ai nostri occhi e alla nostra mente come un elemento sul quale riflettere e da arredare con cura, proprio perché comunicherà tanto di noi, ed entrerà così nell’ambito di ciò che sarà lavoro e relazione terapeutica. Se questo avviene a studio, avviene anche, a maggior ragione, in uno spazio virtuale, che sarebbe sbagliato e avventato concepire come uno spazio neutro o, peggio, vuoto. E’ uno spazio, una prospettiva e una visione che va calibrata e “decisa” con naturalezza ma con cura e consapevolmente. Altro elemento importante, è il cambiamento, anche in questo caso potenzialmente fonte di difficoltà ma anche di opportunità, del feedback visivo. A studio, non siamo abituati a guardarci mentre parliamo. Con la videoterapia questo non solo è possibile, ma diventa un comportamento che certamente attuiamo, dato che per motivi diversi, siamo portati a guardare la nostra immagine mentre parliamo. Questo può rappresentare un fattore di interferenza, aumentando la tendenza all’autoosservazione preoccupata o imbarazzata, o portando le persone a modulare in modo controllato il proprio comportamento, alterando la spontanietà dell’interazione. Allo stesso tempo, può rappresentare una ricchezza, se siamo attenti, onesti e creativi! Nell’intervista, in un altro passaggio, viene illustrato come attraverso il canale di videoterapia possa essere più facile sfruttare questo feedback, sollecitando l’automonitoraggio del paziente in modo funzionale, come viene fatto già con diverse tecniche di automonitoraggio visivo, come nella Self Mirroring Therapy, aiutando così il paziente a osservare e a riflettere sulle espressioni facciali utilizzate nel corso del dialogo clinico. Risorsa importante, se si tiene conto di quanto, riflettere sulle proprie espressioni possa aiutare a diventare più consapevoli delle proprie emozioni, supportando processi di monitoraggio e di regolazione emotiva. Ma tornando al principio, nella relazione di videoterapia, il corpo, in ogni caso, manca. O meglio: c’è, ma in modo diverso, attraverso un filtro, che mette una distanza imprecisata e impalpabile. Stando così le cose, come fare per quanto riguarda l’utilizzo delle tecniche più pratiche ed esperienziali utilizzate in psicoterapia? Le tecniche esperienziali, che utilizzano un approccio più diretto, emotivo e corporeo al lavoro terapeutico, sono un potente strumento, che spesso alimenta e facilita un cambiamento e un’elaborazione della sofferenza che può essere difficile ottenere attraverso altri canali, più logici e razionali, se così si può dire. Come fare in questi casi? Quali tecniche esperienziali sono praticabili tramite la videoterapia? Non c’è, crediamo, una risposta univoca, perché le variabili in gioco sono molteplici. Alcune esperienze, soprattutto nelle terapie già avviate in precedenza ma anche in percorsi “nuovi” possono apparire relativamente semplici da integrare nella modalità di lavoro della videoterapia. Gli esercizi di mindfulness possono essere praticabili, specie se, terapeuta e paziente, hanno attentamente valutato l’ambiente e gli stimoli ambientali con i quali il paziente entra in contatto nel corso della pratica, gestendoli come variabili emotive e quindi, di significato. Nell’intervista sulla videoterapia, Dimaggio si esprime positivamente anche sull’utilizzo di altre tecniche bottom – up (in senso ampio, l’insieme di tecniche che utilizzano l’esperienza e quindi il canale corporeo ed emotivo per facilitare l’elaborazione delle esperienze negative e quindi il cambiamento in psicoterapia), per esempio, sull’utilizzo delle tecniche di Immaginazione (Imagery), sottolineando però, come sia preferibile, nella modalità di videoterapia, optare per l’utilizzo di tecniche di immaginazione guidata e mirata a lavorare non su eventi passati, ma, preferibilmente, su scenari futuri possibili, che il paziente si aspetta di vivere e rispetto ai quali crede di trovarsi in difficoltà che vorrebbe imparare a fronteggiare diversamente. Così, si può utilizzare il lavoro con le tecniche di Immaginazione su episodi futuri, aiutando il paziente a sviluppare o rinforzare schemi cognitivi – emotivi e comportamentali più funzionali e svincolati da quelli abituali (potentemente influenzati dalle esperienze negative e dai vissuti correlati ad esse), migliorando il senso di padronanza del paziente. Altre tecniche possibili da considerare sono le tecniche “positive” quali l’installazione del posto sicuro, o alcune tecniche di role playing.  E’ chiaro che qui ci troviamo in un ambito ampio e di valutazione delicato, rispetto al quale incidono certamente anche variabili legate al temperamento e all’attitudine dello stesso terapeuta, così come variabili da valutare a discrezione del terapeuta (la fase di lavoro terapeutica, la conoscenza del paziente e del suo contesto, per citare solo due elementi); ma, naturalmente, l’orientamento e la scelta devono sempre basarsi sul buon senso e il rispetto della buona prassi clinica e terapeutica e, laddove disponibili delle linee guida all’intervento e alla sua applicazione nei diversi contesti di lavoro. Verso la conclusione, una riflessione sugli aspetti più formali e di cornice del contesto terapeutico, che tuttavia sappiamo essere ingredienti fondamentali dell’intervento e della relazione terapeutica, nonché elementi rilevanti e significativi sul piano del ragionamento clinico. Anche qui, per gli interessati, rinviamo al lavoro di Ada Moscarella e alle riflessioni finali dell’intervista di Dimaggio. Le indicazioni sembrano convergere verso il tentativo, laddove possibile, di estendere le regole utilizzate a studio, anche nello spazio della videoterapia: questo a partire dal consenso informato, al rispetto degli accordi terapeutici e dell’orario degli incontri, di modo da delineare la continuità e la stabilità del contesto condiviso di lavoro. Un’ultima riflessione personale, sull’importanza dello spazio a disposizione del paziente e sul luogo prescelto dal paziente stesso per effettuare la videoterapia. Di solito, il luogo prescelto è un luogo nel quale il paziente si sente comodo, al sicuro. Tuttavia, è bene poter prevedere, se possibile e se necessario, una riflessione condivisa sullo spazio che il paziente utilizzerà e su come si sente all’interno di quello spazio, specialmente se significativo sul piano emotivo e relativamente alla propria storia personale, e se coabitato da altri membri della famiglia, persone importanti per la vita del paziente stesso. Questo, per poter valutare al meglio l’impatto di spazi e presenze influenti sul vissuto del paziente al momento della terapia, al fine di garantire condizioni di sicurezza emotiva e di privacy, fondamentali per un buon lavoro terapeutico. In qualunque contesto di lavoro, quindi, l’elemento sovraordinato, e che il terapeuta deve sempre avere cura di preservare o di costruire insieme al paziente, rimane il senso di sicurezza all’interno del setting terapeutico, qualsiasi esso sia. Dott.ssa Maria Marino. Psicologa, psicoterapeuta - Studio Napoletano di Psicologia Cognitiva SNPC  

10 aprile 2020

La svolta relazionale in psicoterapia cognitiva: origini e prospettive della...

La perdita di Giovanni Liotti ha avuto e continua ad avere un impatto doloroso e inestimabile per tutti coloro che lavorano nel campo della ricerca e della clinica in psicoterapia e per quanti siano venuti a contatto con la sua grandezza e con le sue opere. Opportuno ci sembra, dunque, condividere sul nostro sito uno dei suoi ultimi contribuiti, realizzato insieme a Benedetto Farina, e pubblicato sulla rivista "Cognitivismo Clinico", volume 15 del Giugno 2018. In questo articolo vengono descritti la nascita e lo sviluppo di una delle aree fondamentali della psicoterapia cognitiva, che Liotti ha definito "cognitivo- evoluzionista" perché fondata sui principi della psicologia e dell'epistemologia evoluzionista. Quest'orientamento psicoterapeutico nasce dall'incontro con la teoria dell'attaccamento di John Bowlby e ha portato, all'interno della prospettiva cognitivista, una "svolta relazionale", rendendo più complessa e ampia la teoria psicologica del cognitivismo. La prospettiva cognitivo-evoluzionista ha, infatti, dotato la psicoterapia cognitiva di una teoria dello sviluppo fisiologico e patologico e di una teoria del funzionamento psicologico generale, fondata sui sistemi motivazionali interpersonali innati e sui relativi schemi cognitivi basati sulle esperienze relazionali precoci. Inoltre, lo studio delle motivazioni sociali innate ha portato alla scoperta e all'approfondimento del loro ruolo all'interno della psicoterapia e nella regolazione della relazione e dell'allenza terapeutica. La prospettiva cognitiva e la prospettiva evoluzionista trovano così una sinergia e una convergenza che ha portato ad una delle massime espansioni ed espressioni della teoria e della pratica clinica e psicoterapeutica, all'interno del complesso mondo del cognitivismo.

05 aprile 2020

Towards Earth Day: la nostra salute e quella del pianeta nei giorni del COVID...

Si avvicina una nuova Giornata Mondiale della Terra, il 22 Aprile. Certamente quest’anno non ci saranno manifestazioni oceaniche per reclamare e sostenere maggiore attenzione per l’ambiente. La pandemia in corso ci costringe a restare a casa, in attenta osservanza delle norme necessarie per diminuire la forza e i danni di questo virus, e questo ora ha la priorità. Ma non dobbiamo dimenticare la salute del nostro pianeta e, quando questo incubo sarà finito dovremo rimetterci mano. Per necessità. E non solo per la minaccia, ormai seria e palpabile, del riscaldamento globale e del suo impatto per la nostra sicurezza e sopravvivenza, fisica e psicologica, ma anche per limitare il rischio di nuove pandemie. Nell’augurare frattanto buona fortuna a tutti noi, un suggerimento di lettura, presentando questo estratto del direttore dell’edizione italiana di National Geographic, che apre il numero di Aprile 2020. L’argomento della rivista, di cui vi consigliamo vivamente la lettura, è dedicato alla salute del pianeta, con una suggestiva e forte proiezione di come potrebbe essere la terra nel 2070, immaginando due scenari: uno pessimista, verso un pianeta sempre più instabile, danneggiato e insicuro, con migrazioni e conflitti climatici, catastrofi naturali e umane, perdita irreversibile di territori, di specie e di  risorse; e l’altro ottimista, che mette in luce quanto, ancora, possiamo fare per salvare il nostro pianeta, assicurandogli una lunga e più salubre vita, prima del punto di non ritorno. Dopo che il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato il lockdown, la chiusura di tutto il paese eccetto che per le attività essenziali, a causa della pandemia da COVID 19, che sta flagellando l’Italia e il mondo, l’argomento della salute del nostro pianeta sembra passare in secondo piano. Le prossime settimane saranno decisive per contenere l’impatto del virus, ma l’idea di poter mettere in secondo piano, sullo sfondo, la questione della salute del pianeta è solo illusoria. Si, perché, in realtà, il trasferimento di un virus dagli animali all’uomo (fatto che ha diffuso il virus trovandogli un ospite umano) ha moltissimo a che fare con la nostra impronta sul pianeta. Se avete letto Spillover, bellissimo saggio di David Quommen, una idea ce la avete; e se non lo avete letto, fatelo, in questo tempo sospeso. Basterebbe anche aver sentito parlare la virologa Ilaria Capua, per avere un’idea del ruolo che l’impatto dell’uomo sulla terra nella diffusione di pandemie da zoonosi (da passaggio da una specie animale a un uomo). Il perché è presto spiegabile. Il coronavirus responsabile della pandemia in corso è stato originato da mutazioni di un virus presente nei pipistrelli che gli hanno permesso di trovare un nuovo ospite: noi. Ma il virus è arrivato a noi grazie a una combinazione di cause, tra le quali il nostro impatto sul pianeta, dalla deforestazione alla distruzione degli habitat, con forti cambiamenti nella maggior parte delle terre emerse, fino alla nostra fragilità di società ipertecnologica e tuttavia del tutto impreparata a fronteggiare una minaccia improvvisa, di cui pure avevamo avuto delle avvisaglie. Perché già diversi anni fa, dopo la prima epidemia di SARS, diversi scienziati e ricercatori avevano avvistato che nei pipistrelli c’erano diversi coronavirus pronti a fare il salto di specie. Ed eccoci qua. Non si può quindi fare finta di niente e continuare a confidare nella lentezza dei cambiamenti climatici e del tempo differito con cui fino ad ora questi cambiamenti hanno espresso il loro effetto dannoso. Questa negazione presta il fianco ad atteggiamenti ottusi e, a questo punto del tutto irrazionali. Questo non è un evento isolato e, quando tutto sarà passato, per quanto potrà passare, poter tornare a vivere significherà non dimenticare più, mai più, che la nostra salute e la nostra vita sono legate indissolubilmente a quella di questo nostro fragile, generoso, ferito e bellissimo pianeta.

16 febbraio 2019

Il bambino: dalla comunicazione preintenzionale alla comunicazione intenzionale

Intorno ai 6 mesi di vita il bambino comincia ad interessarsi ad oggetti ed eventi esterni alla diade e verso i 9 mesi si verificano i primi episodi di attenzione condivisa, che evidenziano l'intenzione comunicativa del bambino e il passaggio dalla comunicazione preintenzionale a quella intenzionale. Possiamo parlare di intenzione comunicativa comunicativa quando il bambino sa produrre comportamenti che hanno il valore di segnale e li produce al fine di soddisfare i propri scopi o di raggiungere particolari obiettivi. Fin dalla nascita il bambino si relaziona con il mondo esterno mettendo in atto comportamenti che sono l’automatica conseguenza di uno stato interno. Tali comportamenti non sono ancora eseguiti allo scopo di raggiungere un certo effetto su chi vede o ascolta; sono gli adulti ad interpretarli come comunicativi e a reagire ad essi. Questa fase comunicativa del bambino viene definita preintenzionale: il bambino, attraverso i suoi comportamenti, segnala che ha bisogno di qualcosa ma non in modo intenzionale, dato che non è ancora in grado di indicare quello di cui ha bisogno; sono le abilità interpretative della madre e dei caregivers ad individuare quello di cui necessita.  Inoltre, tra i 2 e i 6 mesi, il bambino, oltre a segnalare a chi si prende cura di lui bisogni di ordine fisiologico attraverso il pianto, gli sbadigli e i sorrisi, inizia le sue prime vocalizzazioni, che si inseriscono nei turni verbali del genitore (proto-conversazioni), dando vita all’intersoggettività, alla condivisione di emozionalità e affetto. Se fino all’età di 4 mesi gli scambi comunicativi avvengono in contesti diadici, progressivamente, intorno alla metà del primo anno di vita, il bambino comincia ad interessarsi ad oggetti ed eventi esterni alla diade. A circa 9 mesi di vita emergono i processi di attenzione condivisa, in cui sia la sua attenzione che quella della madre è rivolta ad un oggetto o evento esterno alla diade.  E’ in questo periodo che si compie il passaggio dalla comunicazione preintenzionale a quella intenzionale: il bambino inizia a comunicare in modo intenzionale; ovvero, sa di produrre comportamenti che hanno per lui il valore di segnale e li produce al fine di soddisfare i propri scopi o di raggiungere particolari obiettivi, in un contesto esplorativo e comunicativo.  Egli, dunque, comprende di essere un agente attivo nel mondo circostante, si serve di mezzi per raggiungere i propri scopi e sa distinguere i mezzi dai fini. Il bambino, in questo stesso periodo, comincia a intendere, in modo emergente e semplice, che anche gli altri sono agenti indipendenti, possessori di intenzioni diverse dalle proprie, le quali possono essere condivise. In luce, si intravede quello che diverrà il complesso mondo metacognitivo del bambino e poi del ragazzo. In questo stesso periodo, il bambino, non avendo ancora raggiunto abilità linguistiche espressive, si serve dei mezzi che ha a propria disposizione per comunicare intenzionalmente con gli altri; nello specifico, i gesti comunicativi. Tra i 9 e i 12 mesi i bambini iniziano produrre i primi gesti comunicativi che hanno una natura triadica, cioè che vengono utilizzati per indirizzare l’attenzione dell’interlocutore verso un’entità esterna e non verso il bambino stesso. I primi gesti a comparire sono i cosiddetti gesti deittici quali l’indicare, il mostrare e il dare. Essi esprimono un’intenzione comunicativa, si riferiscono ad un oggetto o ad un evento esterno, sono fortemente legati al contesto al quale bisogna riferirsi ad esso per interpretarli. L’ intenzione comunicativa è segnalata principalmente dalla modulazione dell’uso dello sguardo, rivolto all’interlocutore, prima, durante e dopo l’emissione del gesto. I gesti deittici possono essere prodotti con due intenzioni comunicative: a fine di richiedere,  per chiedere un oggetto desiderato, ad esempio il bambino indica il biberon quando ha sete, o un giocattolo di interesse, che vuole ma non riesce a raggiungere; dichiarativa, al fine di condividere con l’interlocutore l’interesse o l’attenzione su un evento esterno, ad esempio il bambino indica un’immagine sul libro per condividerla con la mamma, guarda la madre, guarda l’immagine e torna nuovamente a guardare la madre, triangolando in questo modo i processi e le fasi dell’attenzione condivisa e dell’indicare. Tra i gesti deittici quello più studiato e rilevante è certamente il gesto dell’indicare (anche detto pointing). È un gesto universale che non viene abbandonato nemmeno dopo l’acquisizione del linguaggio verbale ed è uno dei mezzi più efficaci, in assenza del linguaggio, per comunicare intenzionalmente con gli altri. Tale gesto deve essere accompagnato da altri comportamenti che segnalino la volontà comunicativa, ad esempio, lo sguardo diretto all’interlocutore e allo stimolo o la produzione di vocalizzi. Intorno ai 12 mesi il bambino inizia a produrre i gesti referenziali o rappresentativi che, oltre a esprimere intenzionalità comunicativa, rappresentano anche un referente specifico (aprire e chiudere la mano per “ciao”). Vengono appresi in situazioni di routine o giochi con l’adulto e prevalentemente per imitazione, per poi decontestualizzarsi ed essere utilizzati più per scopi comunicativi. Essi sono predittivi del linguaggio in quanto rappresentano il simbolo e il referente così come le parole. Contemporaneamente alla comparsa dei gesti referenziali, tra gli 11 e i 13 mesi, il bambino inizia a produrre le sue prime parole. Questa fase è preceduta da una fase preparatoria in cui il bambino produce i cosidetti vocalizzi, per poi passare alla lallazione intorno ai 6-7 mesi, quando produce abbinamenti consonante-vocale con le stesse caratteristiche delle sillabe, spesso ripetute due o più volte (“ma-ma-ma”). In seguito, intorno ai 9 – 10 mesi, il bambino comincia a produrre una lallazione variata, o  successivamente, tra i 9-10 “babbling”, in cui produce degli accostamenti sillabici complessi, per esempio “ba-da”. Ci stiamo avvicinando ora alla fase del linguaggio! Dopo le vocalizzazioni, infatti, emergono quelle produzioni che possiamo più inquadrare come appartenenti alla categoria dei vocalizzi,  ma che già rientrano nella categoria del linguaggio: stiamo parlando delle cosiddette protoparole, delle onomatopee (“brum brum” per intendere “macchina) e delle prime parole. Le onomatopee vengono usate spesso dal bambino perché usate prima dal genitore quando si rivolge a lui sin dalle prime interazioni di gioco. Le onomatopee sono seguite dalle protoparole, che sono simili alle parole che vanno a significare ma non corrette grammaticalmente: per esempio il bambino dice “pappa” per scarpa. Ecco le prime parole! Verso gli 11-13 mesi il bambino produce le sue prime parole, che si riferiscono ad oggetti o nomi di persone familiari, e sono fortemente contestualizzate. In questa fase il bambino comprende molte più parole di quelle che produce. Tra i 18 e i 24 mesi vi è in genere un veloce sviluppo del vocabolario, definito anche “esplosione del vocabolario”. In questa fase il ritmo di espansione del vocabolario può arrivare anche a 5 o più nuove parole (fino anche 40!!) per settimana, cosicché alla fine del periodo in questione il vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole, ma in alcuni casi può raggiungere anche 600. Si ritiene che questo possa  accadere in quanto il bambino diventa capace di attribuire alle parole una valenza propriamente simbolico e si rende conto quindi che non soltanto tutte le cose hanno un nome, ma anche che c’è un nome per qualsiasi cosa. Capendo questo e con la spinta naturale della curiosità, ecco che il motore dell’apprendimento si mette in moto e spiega l’esplosione del linguaggio! La capacità di attribuire piena autonomia simbolica alla parola fa sì che il bambino, non soltanto apprenda nuovi vocaboli con grande rapidità, ma impari anche ad usare flessibilmente le parole che già conosce in una varietà di contesti. Con l’incremento del vocabolario il bambino, quindi, attribuisce referenzialità alla parola, staccandola dal contesto di azione nel quale la produceva inizialmente e applicandola in altri contesti: per esempio, se prima diceva “leone” solo quando giocava con il proprio peluche, ora dirà “leone” anche quando vede un’immagine nel libro! Non solo! Nella fase in cui non è ancora in grado di produrre le prime frasi, ma anche durante le prime fasi dello sviluppo lessicale, il bambino accompagna spesso la parola con il gesto deittico o referenziale, riuscendo così ad esprimere una relazione complessa tra due elementi: per esempio indica un bicchiere dicendo “acqua” quando ha sete.     Intorno ai 20 mesi di vita, avviene la combinazione di due o più parole in frasi. Si tratta prevalentemente di frasi telegrafiche, inizialmente con l’omissione del verbo, per esempio “mamma pappa”. In questa fase, per la comprensione della frase è importante il contesto nel quale viene prodotta. Sono state identificate 4 fasi, da Cipriani, Chilosi, Bottari e Pfanner (1993, citato in Caselli e Casadio, 2002), che il bambino attraversa prima di arrivare alla produzione di una frase completa, corretta morfologicamente e sintatticamente, partendo dalla produzione di prime combinazioni di parole. Le fasi individuate sono le seguenti: Fase presintattica (19-26 mesi): caratterizzata da frasi telegrafiche, costituite per lo più da parole singole prodotte in successione e senza di verbo (“pappa mamma”, “bimbo dà”). Fase sintattica primitiva (20-29 mesi): caratterizzata ancora da enunciati telegrafici, da un graduale aumento degli enunciati semplici, e dall’inizio della produzione di frasi complesse anche se prive di connettivi interfrasali, come articoli e preposizioni (per esempio “bimbo prende cucchiaio mangia minestra”). Fase di completamento della frase nucleare (24-33 mesi): non è più presente il linguaggio telegrafico; prevalgono ancora sugli altri tipi di frase le frasi nucleari, prodotte con morfemi liberi, e le frasi ampliate con espansioni del nucleo (“il bambino mangia col cucchiaio”). Le frasi complesse aumentano e si diversificano per tipologia: coordinate, subordinate e inserite implicite con la comparsa anche di frasi inserite esplicite. Una parte significativa delle frasi complesse è prodotta in forma completa (“il bambino prende il cucchiaio e mangia la minestra”). Insomma il linguaggio si fa più complesso e meno infantile! Fase di consolidamento e generalizzazione delle regole in strutture combinatorie complesse (27-38 mesi): le frasi complesse sono per la maggior parte complete da un punto di vista morfologico. Compaiono diversi connettivi interfrasali di tipo temporale e causale (“dopo”, “allora”, “invece”, “perché”), che cominciano ad essere usati in modo stabile all’interno di frasi coordinate e subordinate. Infine sono prodotte anche le frasi relative (“Ho visto Lorenzo che giocava”). Per concludere, è necessario precisare che lo sviluppo comunicativo e linguistico del bambino avviene secondo una serie di tappe che si susseguono in un determinato ordine, condiviso da molti bambini, ma, al tempo stesso è caratterizzato da grandissime variabili individuali, che riguardano non solo i tempi ma anche i modi e le strategie di apprendimento, componenti che devono sempre essere prese in considerazione quando si osserva e si valuta lo sviluppo infantile.

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